SOTTO LA TENDA

    Che senso farà a un uomo di cinquant'anni d'assistere all'assalto e alla conquista da parte dei giovani di quelli che dovevan sembrare suoi domini incontrastati! Era avvezzo a un cert'ordine per il quale gli veniva a competere ormai la sua quota di cariche pubbliche - che volevan dire onori e influenza; si sentiva sistemato e fissato, nella sua carriera o nella sua famiglia, per aver saputo bilanciare i suoi mezzi; aveva acquisito la somma massima d'autorità nella professione o nel commercio, sicché non gli ci voleva più nessuno sforzo, non aveva più da rimettersi a nuovo e per la sua anzianità si teneva olimpicamente superiore ai molti lontani che tentavano a modo loro di rifar la sua strada. Poteva sorridergli e infischiarsene; certe porte non si sarebbero aperte che a lui, certe leve le aveva al suo comando senza neanche badarci.

    Oggi la sua sicurezza è distrutta e l'avvenire gli appare burrascoso. Le sue "posizioni" sono spesso impudentemente negate, talora difese con tono di padronanza come cosa loro, sempre attaccate dai più giovani. C'è un cozzar d'opinioni e un balenar di lampi come usavano tutt'al più in qualche giornata di fervore elettorale; ma i comizi più non si pacificano con la sua imponenza. Peggio, scoccan per l'aria colpi di rivoltella; il sangue, ora è uno scopo d'ogni giorno e, di vendetta in vendetta, si fa pratica e desiderio comune.

    A volte l'uomo maturo accetta in sè tutta questa furia come un fermento malsano, o come una seconda ebollizione di gioventù più torva e crudele: e si mette a guidare l'inesperienza ardimentosa dei giovani con una falsa ira macchiata di furbizia. Più spesso è preso dall'onesta viltà del padre di famiglia e s'incanala nella corrente che sembra muoversi per proteggere i suoi interessi ripetendo da pagliaccio le esclamazioni e i gesti dei vicini. Ma se gli riesce di mantenersi estraneo, di star sulle sue e d'osservare, dovrà sentire fino alla midolla il sovvertimento di quel mondo che gli era familiare e ci capirà che da tutte quelle gole urlanti e con tutte quelle braccia levate a offendersi tra loro si esprime la volontà di cacciarlo di dov'era, e il potere evidente che hanno di muoversi come gli pare è già la sanzione della sua caduta e il segno del loro sollevamento.

    Se avrà tanto lume da fare il suo esame di coscienza s'accorgerà d'altre cose. Per esempio, che s'era fidato senza controllo all'aria d'un tempo privilegiato e l'aveva presa come condizione di sua vita senza supporre lo spuntar di certe nubi; l'orizzonte non gli s'era mai oscurato davanti gli occhi e gli si spostava, pian pianino mentr'egli avanzava, di modo che non gli costava nessuna fatica a orientarsi; quel piccolo adattamento empirico e abituale, si chiamava anzi "progresso", e ogni anno si poteva ipotecare l'annata dopo computando una regolare miglioria. Gli ostacoli via via si smussavano e si levigavano, lo sforzo si poteva diminuire, il tempo si dilungava in ozio e dal lavoro di prima nascevano certi beni che ora si godevano in pace e bastava un occhio amoroso per proteggerli e farli prosperare.





    E su questo dolce paesaggio scoppiò la guerra. Fu la risurrezione d'un mito. Si sentiron, parole d'oracoli e furon credute tremando. L'impegno di capire quel che significassero non se lo prese nessuno: erano impediti dall'entusiasmo o dal terrore; la cecità della strage fu vinta da questa cecità degli spettatori, che facevano d'ogni tuono udito un presagio divino, e gli pareva di veder schiere d'angeli parteggiar per questi o per quelli; o che chiudevano gli occhi dallo spavento di vedere. L'astensione dall'indagine, o la tortuosità delle espressioni guardinghe che balbettavano ragioni d'impotenza, rinfocolarono il desiderio dei generosi che speravano, unicamente, nel sacrificio; un po' di fede assurda vinse la grettezza di chi ragionava dell'atto futuro della nazione con l'assennata ipocrisia che gli era valsa a trovare il suo tornaconto personale nei casi impensati e rischiosi; il coraggio dei discorsi per le piazze schiacciò la paura che non sapeva più connettere. I giovani presero la mano e fecero per conto loro l'intervento.

    Da quel momento comincia la resa. I combattenti postulano il diritto del loro olocausto, e i reduci poi quello della vittoria. Quelli restati a casa non sanno, com'è naturale, governare; non i loro nervi e il loro cuore, non il modesto centro della loro opera, non, più in grande, lo stato. Alla fronte si esalta l'orgoglio del comando e si acuisce l'insofferenza della disciplina; gli uni e gli altri, i buoni e i cattivi, ingigantisco le loro mire nella lunga permanenza e per quel che soffrono diventano più acri e scontenti; tesi con tutta l'anima alla vittoria o alla salvezza, nel vuoto dell'indugio o nel tumulto dell'azione si squilibrano; come strumenti su cui incalzi freneticamente il suono, perdono il registro, sbalestrati in un mondo nuovo e per tutti innaturale prima d'aver posati seriamente gli affetti e le idee, ogni impressione per loro è una ferita; non hanno più una vita d'iniziativa personale - il comando per quanto stimoli l'orgoglio è un avvezzarsi allo scarico della responsabilità - e soffrono, anche se l'amano, dell'obbedienza e della repressione; per non poter far nulla, nella loro psiche sconvolta portano disperato il desiderio di fare; istigati a sprezzare il pericolo, scambiando l'arma per fama propria e per ragione, isolati tra la realtà della distruzione e il leso sogno, s'atrofizza il senso dalla contingenza, del limite e del rispetto; gli pare di contar loro soli e quel pezza di ferro, buon arnese per farsi libera la via. Quelli che torneranno s'imporranno; non perché dicano una parola nuova, perché abbiano più prosta maturata la vita, perché nell'esperienza e nel dolore si siano arricchiti di saggezza; ma per una rude semplicità che non discute, per il bisogno di farsi largo, per la stessa loro incapacità di discernere i fini che li fa aggruppare secondo tendenze sentimentali dove tutti, ridotti alla più elementare espressione, si riconoscono di primo acchito.

    Questa forza, non propria bruta quanto sfrenata e in fondo momentanea, s'è avvantaggiata della mancanza di volontà e di potere di quelli che avevano per natura il compito di tenerla a bada, dei padri e dei fratelli maggiori. La così detta crisi dello stato è la crisi d'una generazione, che s'è esautorata col permettere la guerra; la generazione del pareggio e degli emigranti; di Giolitti e di Turati. A un dominio effettivo, regolare, calmo, esemplarmente borghese della cosa pubblica e delle cose private, si sostituisce questo contrasto di violenze che sono il parossismo di sentimenti non trattenuti a dovere, e che segna nella storia l'immaturità d'una generazione cui si abbandona il campo di lotta prima che, con l'esperienza, si sia educata e corretta.





    Ma questa giostra tumultuosa non è un'occupazione per tutti. Prima, meno insistenti e ossessive, ristrette a un margine della vita dove s'amavano gli scoppi esultanti di subitanea pazzia per il riflesso pittoresco che veniva a illuminare ogni passante, si conoscevano certe manifestazioni di gioventù: tra goliardi e scapigliati, c'eran combriccole di figliuoli senza quattrini che godevano la loro indipendenza iniziale con lo spirito chiassoso e un po' alterato d'una mascherata permanente; nessuno se ne adontava perché sapevano che tra pochi mesi sarebbero stati - addio giovinezza! - modelli di cittadini. Ma, tra i loro compagni, c'eran di quelli a cui il carnevale non piaceva; a quell'impeto breve di mattana, che distruggeva in una vampa ogni sogno, da scontarsi collo sgobbamento della vita in un mestiere senza scampo, fatti pari ai vecchi, ritirando tutte le tendenze esuberanti, rannicchiati e rintappati nel guscio dell'ufficio perché la luce e l'aria non li ferisse e non li scottasse, pareva un giuoco puerile, un rompicollo senza sugo; o l'affinavano risentendolo dopo il bollore come un rimorso. Senza volere, questo era un modo di distinzione: col rompere gli schermi soliti, un invito a porsi al lavoro fuori dalle regole e dagli organici; a contribuire in quella libertà più dura che va in cerca degli ordini o se li crea invece di riceverli stampati.

    Oggi, sconvolte le proporzioni usate e non più riconoscibili le classi per quello che han di intimo, per l'educazione e pel gusto, la rapida avventura di allora è ridotta a sistema e ci si attaccano con accanimento, per la vita; per ciò lo schiamazzo si fa invettiva, la riunione congiura, la spacconeria violenza. In ogni gesto si palesa un che d'impulsivo e di frenetico che non ha che vedere con la fantasia; a far più grossi i successi e le sconfitte s'aggrava l'ombra della serietà. Forse più di prima s'avverte il distacco di quelli cui ripugna l'eroismo avventato e quotidiano e questa nuova passione di parte che si accieca fino all'odio; anche perché serbano della guerra il disgusto e il terrore, come d'un pericolo vicino che quasi li ha travolti a da cui son salvi per un miracolo di ripresa nella coscienza; quando già lo spossamento o l'esaltazione li piegava a accettare la schiavitù di quella cupa logica del sangue.

    Il distacco si fa netta riluttanza, e contrasto. I modi usati, gli atteggiamenti, le grida son simboli che vanno negati; deformazioni da cui ci si salva istintivamente valendosi dei loro opposti; si ricorre a una cura di ghiaccio par fare che quella febbre non ci si appicchi. L'infatuamento dall'azione si riflette in un bisogno di non fare, il desiderio d'affermarsi, e di salire in una sfiducia che prova quasi gusto a negare le forze, a vuotar del contenuto gli scopi, la volontà di capeggiare e di condurre in un scrupoloso rispetto per gli altri e nel rifuggire come da una contaminazione da ogni comunanza sociale; il possesso sicuro dei fini e la facilità con cui s'imboccano le strade, beati magari per gl'inciampi futuri, pare un'illusione insensata perché quei fini, quei mezzi e quegli ostacoli si ha fede siano tutti fuori dalle cose possibili, esterna apparenze allettatrici e vena; il bisogno di contare tra gli altri è una malattia che perverte e squalifica quel poco che ognuno, se lo sa scovare, trova in sè di proficuo.





    Questi stati d'animo estremi sono indizi del momento di rivoluzione, che é uno spostamento arbitrario dei limiti e uno squarciarsi delle forme. Da una parte l'azione è iperbolica, si fa signora degli animi e li costringe alla sua fede; è baldanza, irruenza, incoscienza. Ma per questa stessa sua tirannia incita alla ribellione; chi le si avversa, sapendola predominante, si corazza nella sua opinione, ne fa un dogma e, per sradicarla, nega la sua base solida, la sua giustificazione compiuta: l'idea del progresso; che non può aver vita se non s'accosta alla cura paziente di quel patrimonio passato che fonda la sua realtà, del tronco da cui gemmi il nuovo ramo. Il cardine di una civiltà è spezzato; quel che ne resta, nell'anima e nelle consuetudini, iato a rimpianto, urta continuamente con la realtà cui ci dovremmo adeguare; sì che quel che riusciamo a intuire e in certo modo a creare, per essere poi d'altro tempo e inadattabili non ce ne possiamo servire; o gli manca ancora quella forma provata e stabile che si fa ordine nella coscienze individuali e, con molto sforzo e contrasto, pur riesce a guidarle e a farle produrre.

    Si direbbe - o forse la solitudine fa superbi - che dell'azione e della violenza d'ora non debba restar nulla; altro che i morti e le ferite; il male e il necessario rimedio. Dunque a staccarsene, a star cheti e chiusi, a non ne voler sapere degli alti voli e della fiammanti battaglie; a essere i guardiani d'un bene inefficace e intristito, della terra squallida, d'un po' di tormento che non urla, d'un po' d'amore che non s'esalta, a reprimere il bisogno d'uno sfogo, più acuto per quanto più pare che differirebbe dagli sfoghi altrui, forse si supera il tumulto di quest'ora e, al riassetto, questa povertà custodita, sarà per tutti una ricchezza. A ogni modo, oggi come oggi, è giusto - è umano - poiché il movimento ha infranto le sue leggi, ci sia qualcuno che se ne astiene e sta fermo.

    Allora non si dovrebbero meravigliare i più vecchi se questa nuova generazione non "produce"; poiché produce troppo; poiché è già al centro della produzione e del consumo, e fa continuamente quello che distrugge; poiché non conosce più mediocrità e attesta in ogni atto un eccesso; poiché fa a meno della scuola e ha già vinto le cattedre donde la sua voce echeggia e rintrona. Prima i molti erano inerti, si dovevan muovere i pochi, quelli per cui gli occhi contan più dei muscoli; ora sona in subbuglio le folle. E' bene fare i ciechi.

    Non si è poi sicuri che questa preparazione di silenzio e di spegnimento faccia peggio di quell'altra; se le più scelte attività di coltura, di buon volere, d'intelletto han prodotto, come si vede, questo caos.


UMBERTO MORRA DI LAVRIANO.



    Questo articolo, scritto or è un anno, ci pare oggi di vivissima attualità, come quello che può caratterizzare stati d'animo diffusi ed accentrati, e può indicare alcune delle infinite ragioni del nostro antifascismo. Non ci preme invece affatto indicare le divergenze di azione che ne sono suggerite, né discutere le sfumature e le coincidenze di due diversi pessimismi.