Note sulla burocrazia

III.

IL GOVERNO DELLA BUROCRAZIA

Una denuncia del Senato.

    Il 3 aprile di quest'anno, il sen. Tittoni, in un discorso detto in Senato a riepilogo e chiusura d'un periodo di gran lavoro della Camera alta, dopo aver pronunciato una fierissima requisitoria, contro l'istituto del decreto-legge e il suo abuso, usciva in queste notevoli dichiarazioni: "Se noi... risaliamo alla vera sorgente dei decreti-legge, ci troviamo di fronte a quel potere incoercibile che è la burocrazia dei Ministeri, nella quale il sistema dei decreti-legge concentra di fatto il potere legislativo"; quindi dopo aver insistito sui pericoli di questa "anonima forma di assolutismo" e dopo aver ricordato che "alla condanna dei decreti-legge sono legati i nomi più illustri della nostra storia parlamentare" da Cavour e Rattazzi a Orlando e Luzzatti, veniva a citare questo apocalittiche parole del Luzzatti: "Più si approfondiscono questi abissi dei decreti-legge, più ne cresce l'orrore. Assumono l'aspetto terribile di un reggimento assoluto per spontanea dedizione dei parlamentari" e concludeva finalmente ripetendo, lui Tittoni senator Bernardo, "le parole, che un fiero spirito democratico, Domenico Guerrazzi, poneva in bocca ad un personaggio storico: Autorità senza legge, autorità corrompitrice di leggi, le osteggiai tutte; e finché durino, nessun popolo si vanti né libero né civile".

    E bravo sig. Presidente! Però, a voler essere incontentabile e indiscreto, si poteva anche obiettare al commosso e autorevole oratore che, veramente, quasi tutti i parlamentari da lui ricordati, specialmente i più recenti ed i viventi, avendo fatto parte dei governi sotto cui prima, durante, e dopo la guerra, più celere e profonda era stata la democrazia parlamentare, madre, o per lo meno sorella della strapotenza democratica, erano, ciascuno per la sua quota parte, i veri e maggiori responsabili del terrificante stato di cose, che il Tittoni lamentava davanti e a nome del Senato. La quale constatazione, con implicito biasimo, era estensibile anche all'on. Tittoni, come quello che di parecchi di quei governi "burocratizzatori" era stato grandissima parte.

    E ancora, data la stura alle impertinenze, si sarebbe potuto, a proposito di questa un po' tarda e assai coccodrillesca deplorazione, rilevare, come fu del resto rilevato di fatto, che il Senato allora aveva aspettato a insorgere contro lo strapotere della burocrazia, quando l'azione dei decreti-legge si era inoltrata sempre più inesorabile e pesante persecutrice delle alte fortune industriali e immobiliari, che sono, come ognuno m'insegna, nell'alta Camera assai largamente e degnamente rappresentate.

    Ma, fatte così, a sfogo del nostro cattivo carattere, queste obiezioni e queste riserve, non è possibile non applaudire toto corde alla denuncia dell'On. Tittoni, e non convenire con lui che nel momento attuale, porre in questi termini e cercar di risolvere in questo senso il problema della burocrazia è opera indiscutibilmente coraggiosa e della più alta benemerenza.





    Perché, quando si parla di problema, o di piaga, della burocrazia in Italia, e fuori d'Italia, crediamo anche noi che il lato più grave e il punto più purulento, non sia tanto nella pletora degli impiegati molti, e mal pagati, e non sia anche nello scarso rendimento di queste turbe di funzionari impecuniosi, ma sia invece appunto nella usurpazione di funzioni di governo da parte dell'alta burocrazia centrale, e nella esistenza di quella "anonima forma di assolutismo", che è di quella usurpazione la conseguenza diretta. E la gravità della cosa, si badi bene, non è mica di oggi; sono di ieri il discorso Tittoni e i "vivissimi applausi" dei senatori, ma il male è antico assai. Già un pezzo prima della guerra, alla vigilia delle prime elezioni a suffragio quasi universale e completamente giolittiano, "l'autore di queste note" per dirla anch'io col Luzzatti, scriveva su La Voce del 9 ottobre del 1913 " ... la iniziata, e quanto prima completa, decadenza del parlamento, avrà a segnare il definitivo e permanente trionfo della burocrazia. La quale, in questi ultimi tempi... ha visto la sua influenza e i suoi poteri ingrandirsi enormemente: tanto che oramai nacostamente, già aspira ad avere vere e proprie funzioni di governo; E DOMANI, TALI FUNZIONI, SE NULLA INTERVIENE, ESSA LE AVRÁ DI FATTO".

Burocrazia e dittatura.

    Dall'autunno del tredici in qua nulla essendo intervenuto in senso opposto, tutto essendo intervenuto in senso favorevole, quella che nel tredici era previsione d'un vociano, adesso, nel ventidue é la constatazione, del Presidente del Senato: e il fatto è questo insomma, che l'Italia vive ora davvero in regime di governo burocratico, cioè in regime di dittatura.

    Perché l'importante è qui: la burocrazia moderna non è che la permanenza e la rivincita dell'antico regime; dire governo della burocrazia è dire potere assoluto, dittatura; dittatura di un uomo, quando l'uomo c'è, e si chiama per esempio, oggi come ieri, Giolitti (e questo è ancora il migliore dei casi), dittatura di un'organizzazione di un gruppo, di una banda, quando manca l'uomo di statura e di abilità superiori alla media (e questo è il caso più frequente, ed il peggiore dei mali).





    Episodi noti e tipici del reggimento dittatoriale, da cui è beneficata l'Italia del dopo guerra sono, tra i moltissimi: gli scandali delle note di variazione dei bilanci con cui la burocrazia romana aveva trovato modo di eludere, non solo lo Statuto, ma anche la legge di contabilità; e prima, la promulgazione del decreto Alessio, con cui Giolitti, dopo le elezioni del 21 prima di cedere il posto a Bonomi, aumentava nella misura che si sa le tariffe doganali, consolidando per anni, a beneficio di certi gruppi bancari e industriali, il caro-viveri iugulatore di tutto il paese: e circa lo stesso tempo, sebbene in tutt'altro campo, la reazione anticrociana della burocrazia minervina, durante e dopo il ministero Croce; e più avanti l'arbitrio esemplare di Nitti che, deliberatamente, non tiene nessun conto di un voto quasi unanime della Camera, per la ripresa delle relazioni col governo di soviets, e, cosa più enorme ancora, di questo arbitrio si vanta in un libro e in un discorso: e ancora prima, a conclusione della guerra, l'approvazione per decreto-legge dei trattati di Versailles e di St. Germain; il tutto avvolto nel classico paradosso costituzionale italiano, per cui un partito che costituzionalmente in Italia non è più nulla, pure seguita a tenere il governo, apparentemente con un Presidente del Consiglio e alcuni ministri, in realtà coi direttori generali, coi prefetti, con la magistratura e con certi elementi del fascismo.

    Oppressa al centro era naturale che la libertà superstite rifluisse alla periferia ad animarvi quelle aspirazioni autonomistiche e locali e particolari, che ancora potessero sussistere nel nostro paese; ma ben presto arrivò a controllare e ad infrenare anche quei movimenti il potere assoluto della burocrazia centrale, il quale, prima, diede alle autorità locali (prefetture, magitratura, questore) ordini di allentar la corda e di tollerare, (vedi Collaborazionismo di Formentini) e poi, dopo le elezioni del '21, ordinò l'ostruzionismo prefettizio alle amministrazioni ultraautonome dei socialisti, finché, venuta la reazione fascista-nazional-democratica nei due terzi d'Italia, le amministrazioni autonome, defenestrate o dimissionate, furon trionfalmente sostituite da commissari prefettizi, da commissari regi e da commissioni reali.

    E così fu soffocato quel significantissimo, per quanto disordinato, tentativo di autonomia e di decentramento, che era rappresentato dalle amministrazioni socialiste, popolari, combattenti e redente, sorte dalle ultime elezioni amministrative: con questa dolorosa e pericolosa conseguenza, che la comune degli amministrati, sbalordita e stanca e delusa, dopo tante violenze e tanti eccessi, è disposta a considerare l'intervento della burocrazia statale nelle cose locali, come il minore dei mali, o addirittura ad applaudirvi come al ritorno di Astrea, e, insomma, a rinunziare, per un pò di pace, alla propria libertà e sovranità.





La libertà in Italia.

    "Italia, terra di ogni libertà": un altro di quei tali modi di dire, tipo "Italia giardino d'Europa", "Italia madre di biade", ecc.

    Di libertà autentica, veramente, in Italia non ce n'è mica molta. Politicamente si scambia per libertà la facoltà teoretica lasciata al "popolo" di valersi dei proprii diritti sovrani; libertà "virtuale", se mai, ma in atto, da noi, tirannide delle più esose, tirannide della burocrazia. Praticamente, poi si crede che sia libertà quella tale indifferenza e ottusità dell'autorità, la quale in Italia usa lasciarsi in ogni campo vilipendere, e ignorare, salvo poi intervenire, a intermittenza, brutalmente, come è proprio degli abulici e dei nevrastenici, o deliberatamente e parzialmente secondo che la sospingano interessi o egoismi eventualmente offesi. Non ci può poi essere libertà vera in un paese come il nostro, in cui manca o è tenuissimo il senso della legalità e dove la legge, così in alto come in basso, è ancora considerata come un chiapparello buono per gl'ingenui, e di cui i "furbi" si valgono solo per l'utile proprio o per il danno dell'avversario.

    In Italia c'è, se mai, quella sorta di libertà, che la Roma dei Papi concedeva a' suoi sudditi: libertà di satireggiare Pontefice e Cardinali, ma obbligo, per esempio di comunicarsi pubblicamente anche per chi non ci credeva; e quella libertà che la Chiesa romana concedeva e forse ancora concede a' suoi ministri: libertà di parlar grasso, libertà di non osservare il digiuno, libertà magari di non credere,. ma divieto, per esempio,di esser pietosi con i reprobi o ritenuti tali. E così è ancora nell'Italia cosiddetta laica dove un professore universitario, per esempio, è libero di professar dottrine sovversive, ma non è altrettanto libero di esser seguace o ammiratore del Croce: dove un professore secondario è liberissimo di dire e scrivere de' suoi superiori della Minerva tutto il male che vuole, ma non sempre libero di bocciare il protetto del senatore A. o il figlio del pescecane B.; in Italia, in politica puoi essere Bombacci non puoi essere Giretti, puoi essere Mussolini non puoi esser Salvemini, nell'Italia militare puoi essere Millo non puoi essere Cadorna; dappertutto insomma sempre hai la libertà di non fare il tuo dovere, di rado hai la libertà di farlo a oltranza.





    E se nella tua vita ti capita la disgrazia di venire a contatto con gli organi statali che amministrano la giustizia e reggono la sicurezza pubblica, allora tu provi più tremendo e raccapricciante il senso della inesorabile compressione cui può esser soggetta in Italia la tua libertà. Qui è ancora l'atmosfera del Santo Ufficio. Nella terra del Beccaria, se è tolta da un pezzo la pena di Morte, vige però ancora nelle questure la tortura: le rivelazioni del Secolo sono roba di ieri. Quando, per una lite o civile, o penale, tu cadi sotto le grinfie della nostra giustizia, se non appartieni a qualche camorra o bianca o rossa o verde tutt'insieme, novanta su cento, con tutte le tue buone ragioni, tu resti nell'ingranaggio, inesorabilmente stritolato: ne sa qualche cosa l'amico Dino Provenzale, che proprio mentre scrivo, è alle prese, col nuovo Moloch. Ché se poi niente niente vi s'intrude la politica, allora sono dolori: alla vecchia formula della "legge uguale per tutti" il sen. De Cupis, peggografo, mi pare, della nostra magistratura, contrappone dallo scanno senatoriale quella più moderna dello "Stato amico agli amici e nemico ai nemici": e lo scandalo delle assoluzioni e delle condanne politiche giunge tanto oltre che un Presidente del Consiglio, in piena Camera, per ben due volte, cosa inaudita io credo, in uno stato civile, richiama solennemente la magistratura ai propri doveri di imparzialità, senza che l'Istituzione così colpita, trovi mai, né l'una né l'altra volta, una pubblica parola di protesta.

    È vero che la magistratura regria ha di ciò una scusa e un esempio nel diportamento della magistratura popolare, più forsennata ancora nel condannare e nell'assolvere, con criteri di classe o di parte: ma la questione si è che l'Istituto della giuria è criticabile ed è riformabile, ed è, ad ogni modo, rivoluzionario di origine e politico per definizione, mentre invece, caspita, la magistratura Regia è la moglie di Cesare, è un potere dello Stato, è lo Stato in quel che ha di più santo, e se c'entra il baco, addio patria, la liquidazione è aperta.

    Rimaneva, a presidio della libertà intesa come neutralità dello Stato, o meglio, come superiorità dello Stato al conflitto sociale, un'altra branca della nostra burocrazia, quella militare, l'Esercito: il quale di fatto in questo senso, finora pareva che avesse funzionato mica male da Aspromonte al brigantaggio, dai fasci siciliani al '98, dallo sciopero generale del'904 alla settimana rossa della vigilia della guerra; ma poi c'è stata la guerra, anzi, la discussione sulla guerra, e dopo Caporetto la propaganda e dopo l'armistizio, ahimè, Fiume; e la montagna di Fiume ha partorito i generali Ceccherini ed i Depetto e i Millo, e l'esercito fascista, e i relativi Del Dono, cosi che adesso, in caso dei casi, se fallissero, come fallirebbero, i complementi siciliani di Badoglio, noi, non fascisti, per difendere le cose nostre e le nostre persone, dovremmo tener conto dell'offerta della Patria del Popolo (sindacalista D'Annunziano) che a "difesa effettiva ed armata contro tutte le offensive violente ed armate della reazione" pone a disposizione di "tutti coloro che temono soprusi e violenze", le sezioni dcll'Unione Italia del Lavoro, i Legionari Fiumani e gli Arditi "gente di fegato e di audacia, che non è avvezza a scappare, che li proteggerà e li tutelerà con tutti i mezzi".





    "Povera Italia! dove abbiamo giunto!" è il caso di esclamare. Meno male poi che, ancora come avveniva negli Stati del Papa, l'inferno di questo assolutismo tra medievale e messicano, è poi di fatto mitigato e dalla naturale bonarietà della maggior parte dei funzionari alti e bassi e dalla relativa facilità di contrapporre influenza a pressione, e da quella singolare duplicità della nostra indole, per cui ogni Italiano è sempre due Italiani, uno che dice e minaccia un sacco di bestialità e uno che, al momento buono, vede il peggiore ed al miglior s'appiglia": il che però non toglie che sia dovere di ogni italiano dotato di ancora chiaroveggente amor di patria, notare che questo gioco non può più durare, e che è venuto oramai il momento di rompere - in qualunque modo - il cerchio di questa tirannide, che, un po' per ridere un po' sul serio, adagio adagio ci è venuta serrando, e contro cui oramai, ogni momento, urta in Italia ogni attività che tenda alla restituzione integrale delle nostre libertà.

Gli antecedenti storici.

    Molti, pur essendo con noi d'accordo nelle constatazioni che siamo andati facendo, ritengono che si tratti insomma di un male temporaneo, di una necessità in cui, nella crisi del dopoguerra, si sono trovati i detentori del potere, costretti, per difender sé e lo Stato, dagli assalti dei governanti sovversivi, a por mano a tutte le armi di cui disponevano, ivi comprese la Pubblica Sicurezza, la magistratura, l'esercito e la burocrazia vera e propria, vuoi centrale, vuoi provinciale: passata la bufera, dicono questi ottimisti, tutto ritornerà nella normalità, e, in definitiva, si vedrà che tutto è stato per il meglio di tutto.

    Già, ma il guaio si è che codesto auspicato "ritorno alla normalità", codesta sperata restituzione dello statuto quo ante bellum, a me non mi sorride niento affatto, chè anzi mi par più pericoloso del parossismo attuale. Perché lo stato di cose che noi chiamiamo "governo della burocrazia" con tutte le sue lugubri conseguenze, non è mica in Italia una invenzione recente, un "residuato di guerra", ma invece una cosa antica, un male annoso e cronico.





    Tutti gli eccessi di assolutismo burocratico dittatoriale, che io ho enumerato dianzi, hanno i loro antecedenti in altrettanti eccessi compiuti dagli organi di questo potere irresponsabile nei lunghi anni che precedono l'ultima guerra: i fasti di S. Fedele e delle caserme delle guardie di finanza, denunciati di recentemente da certa stampa milanese, hanno i loro antecedenti in innumerevoli casi dello stesso genere, fra cui tipico e antonomastico a Roma il caso Frezzi con relativi sacchettamenti : già molto tempo prima della guerra la moglie di Cesare era qualcosa più che sospettata, e fin dal'900, per esempio, era andato famoso il procuratore del re di Vigevano (cito dal Papafava) il quale, letto sull'Eco della Lomellina ricavato dalla Vita internazionale un articolo di Edoardo Giretti, in cui era detto fra l'altro che il dazio sul grano era "una iniqua spogliazione che per mezzo ed autorità della legge si fa dell'intero popolo italiano a beneficio di alcune migliaia di proprietari di terre", imputato il Giretti di aver incitato "all'odio tra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica autorità" (art. 247 c.p.; da tre mesi a un anno di carcere): l'insurrezione anticrociana dell'alta burocrazia minervina è stata una cosa da nulla rispetto all'insurrezione dell'alta burocrazia contro il Sonnino all'epoca dei primi e dei secondi centro giorni; e i decreti-legge lamentati ora dal Tittoni e dal Luzzatti non sono niente affatto una cosa inaudita per chi ricordi, ad esempio, la serie di quei tumultuari e ciechi provvedimenti di unificazione amministrativa che il partito moderato al governo attuò a mezzo di pieni poteri fra il '60 e il '76.

    E che cosí fosse per un pezzo in Italia, era fatale.

    La burocrazia è lo strumento di governo, che un reggimento dittatoriale sorto in seguito a una rivoluzione, si foggia o si affina, per sostituire effettivamente l'antica classe dirigente, o per consolidare prima, mantenere poi, il proprio dominio.

    L'eliminazione della primitiva classe dirigente, concomitante alla creazione del rafforzamento della burocrazia, può avvenire in varii modi: o bruscamente con la violenza (dittature preparanti l'impero romano, il terrore, lo Czarismo, il bolscevismo) o lentamente e mitemente con l'esca degli impieghi di corte e dei gradi militari (Monarchia di Francia, duchi di Piemonte), o insensibilmente e per volontà della stessa classe dirigente, distratta dalle cure della cosa pubblica e avviata agli studi dell'arte e ai subiti guadagni; o per via costituzione e con l'attribuzione cesarea dei poteri sovrani a ceti sociali grezzi ed incolti (Austria-Ungheria, Regno d'Italia, ecc.).





    D'alta parte, la burocazia nasce come semplice strumento di governo trattato da un dittatore (uomo o gruppo), ma essa è anche in potenza, vero e proprio governo autonomo. Le funzioni di governo autonomo nella burocrazia di potenziali diventano attuali ed effettive negli interregni, quando, scaduto un dittatore, l'altro non gli succede immediatamente, e così pure, quando il processo di eliminazione e il decadimento della classe dirigente è avanzato o giunto al suo colmo.

    Per l'Italia, dalla metà dell'800 in qua, le cose non sono andate diversamente da quello che sono andate in altri luoghi ed in altri tempi. Anche da noi, al tempo che tutti sanno, una rivoluzione, mezzo liberale, e mezzo dinastica, ha portato al potere una minoranza, la quale non poteva mantenersi se non con sistemi dittatoriali. La Destra messa dagli eventi in groppa all'Italia ma senza che credesse nell'unità di questa Italia, e con pieno il capo del suo concetto di "Stato, il quale avvia un popolo verso la civiltà" (S. Spaventa) doveva fatalmente, per governare, crearsi quell'arnese di governo che noi abbiam descritto nella burocrazia. La Sinistra, la quale, come disse ancora lo Spaventa, salutò la caduta dei moderati "come il trionfo di un programma più liberale di governo ridotto al minor numero possibile di funzioni; che costasse quindi meno, e lasciasse fare molto all'attività individuale o collettiva di privati cittadini", mantenne tal quale la burocrazia della Destra, pur senza avere, per mantenerla, le ragioni, che aveva avute la Destra per. crearla.

    L'ultimo rappresentante della Sinistra, Giovanni Giolitti, vittima dell'errore comune a tutti i conservatori italiani di sopravalutare la capacità rivoluzionaria dei nostri sovversivi, e vittima anche della sua riluttanza e incapacità al combattimento aperto con gli avversari politici, perfezionò il sistema del governo burocratico, annullando di fatto ogni opposizione parlamentare, specie quella costituzionale; trasformando di botto in ministri le belle speranze o i pezzi grossi della burocrazia centrale; fiaccando inesorabilmente ogni velleità d'indipendenza della burocrazia provinciale o minuta rispetto a quella grassa e centrale.

    Di pari passo con la creazione ed il rinvigorimento dell'alta burocrazia procedeva la connessa eliminazione della classe dirigente di opposizione, al quale scopo furono impiegati in Italia, indifferentemente quasi tutti i mezzi sopra descritti, con preferenza, dal '76 in qua, per gli allargamenti intempestivi del suffragio e per le manipolazioni elettorali. Ultimo capolavoro di Giolitti in questo campo: l'elargizione del suffragio quasi universale e le elezioni del 1913.





Tristi conseguenze.

    Giolitti, facendo come fece, attutì certo la lotta politica in Italia, risparmiò sì i proprii nervi, e assicurò al paese, per circa un ventennio, quella tranquillità interna che permise all'Italia di lavorare e di arricchirsi assai celermente: ma, per il quieto vivere dell'oggi, Giolitti comprometteva così, a sé ed al paese, la sicurezza del domani. Con la sua politica, oppiacea e, insomma, anticostituzionale, il mago di Dronero recideva i nervi all'Italia politica, e ne ottundeva la già scarsa abilità e sensibilità costituzionale; e preparava a sè e al paese, il più tremendo dei risvegli.

    Il che avvenne quando, allo scoppio della conflagrazione europea, l'Italia ai trovò nella necessità di dover risolvere il problema della sua entrata in guerra e della scelta degli alleati e del tempo. Giolitti aveva per ciò un suo programma: io non so quale fosse e non posso quindi giudicarlo, ma un programma ce l'aveva; ed aveva anche, lui padrone, sebbene non ministro, del parlamento, delle prefetture, delle direzioni generali e di parte della stampa, i mezzi per far prevalere nel paese codesto suo programma quando e come voleva. Ma in una questione così ardente e così interessante, in un passe retto, dopo tutto costituzionalmente e parlamentarmente, egli doveva, per imporre il proprio programma, valersi dei mezzi costituzionali e parlamentari; doveva fare così, se, non per fede, almeno per abilità di politica interna ed estera. Invece egli aveva perso di tali procedimenti l'abitudine; forse tale possibilità non gli passò neanche per la mente; credette di poter anche questa volta riuscire con i mezzi anticostituzionali, personali, dittatoriali: lettere, gite a Roma, pronunciamenti extraparlamentari, trattative extra-ufficiali. L'opposizione, che àllora era al governo col superstite Salandra, per un po' si battè con le armi costituzionali, ma poi in un paese la cui educazione politica e liberale era stata così sistematicamente e deliberatamente trascurata, alla stretta finale dovette, per vincere, ricorrere alle medesime armi dall'avversario, ai mezzi extra-parlamentari e anticostituzionali (Sagra di Quarto, giornate di maggio, ecc.).

    E così si fece la guerra, e ciononostante la guerra fu vinta. Ma con gli avvenimenti del periodo della neutralità la questione delle nostre libertà costituzionali veniva posta brutalmente e finalmente sul tappeto: la guerra, per ciò, è stata una parentesi; chiusa la parentesi, la questione si è ripresa nel dopo-guerra, e, forse, si sta risolvendo in questo momento stesso.

    Certo è che quando si cerca l'origine della crisi statale, per cui dopo la guerra tre volte siamo stati nell'imminenza di dichiarare la guerra civile, questa origine non la si può trovare altrove che nella passione della neutralità, come causa immediata, nella persistenza antistorica del "governo della burocrazia" come causa remota.

    Fine d'ottobre 1922.


AUGUSTO MONTI.

    (continua)