CROCE POLITICO

     Nel discorso programmatico da lui tenuto alla Camera dei Deputati nel 1920, come Ministro della Pubblica Istruzione, B. Croce si affermava lui stesso rappresentante di quella vecchia e gloriosa tradizione liberale che aveva saputo portare a maturità il giovinetto Regno d'Italia e che nove lustri di imperio della "plutocrazia demagogica" poterono costringere nell'ombra, ma non soffocare. La dichiarazione è preziosa, per chi voglia esaminare a fondo la sua concezione di diritto e dello Stato: non già che ne rappresenti l'etichetta o la chiave, ma costituisce un ottimo indice del colorito personale che questa concezione è venuta assumendo: senza contare che può sorgere il problema se Croce abbia così definito sé stesso proprio esattamente, o se non si tratti invece di una semplice adesione pratica. Ma le origini della dottrina politica crociana sono assai lontane da questo risultato e tutto il suo sviluppo non vi giunge in realtà se non indirettamente. Risaliamo al 1890-1900, l'epoca degli studi marxistici del Croce: perché quel marxismo da lui studiato e criticato, e allora così potente nella stessa cultura europea, quel marxismo attraverso il quale egli cominciò a vedere (come dichiara nel Contributo alla critica di me stesso) un Hegel più concreto e profondo che non gli comparisse attraverso gli espositori mistici e teisti, quel marxismo, dico, lasciò a parer mio tracce ancor oggi riconoscibili nello spirito filosofico del Croce e nella stessa sua concezione politica e giuridica. Molto del dinamismo concreto (astrattamente concreto) di Marx passa infatti nel duplice concetto del diritto come economia e dello Stato come forza. Diciamo duplice concetto, perché in realtà dall'equazione: diritto=politica utilitaria=forza, risulta solo che lo Stato considerato come organo del diritto ha per funzione sua propria atti di forza (nel senso ben noto, e non immediatamente, che la vita dello Stato tutta quanta sia vita di forza. Questa definizione più generale si attacca anch'essa, in qualche modo, all'economia marxistica (non certo al marxismo internazionalista!): ma in quanto essa riflette il pensiero hegeliano, e anche vichiano.





     Manca tuttavia al Croce uno speciale svolgimento della sua dottrina per ciò che riguarda lo stato astrattamente giuridico: questa filosofia politica ha invece per suo problema centrale quello delle relazioni fra gli Stati. E guardando a queste e alla realtà della vita internazionale come corso concreto della Storia, Croce vi ha scorto un'eterna ineliminabile guerra, nella quale la vita di ogni Stato come organismo politico è essenzialmente difesa incessante e continua della propria esistenza. Guerra che non è se non la forma estrema della dialettica di opposizioni e contrasti per cui vive la storia: guerra che rappresenta una crudele necessità, ma senza la quale il mondo umano non è inconcepibile. Così il Nostro scriveva fin dal 1912, svolgendo un principio implicito già nella sua filosofia della pratica: e così si apriva la via a criticare quel complesso di idee e sentimenti ch'egli denomina astrattismo politico e che corrispondono al liberismo internazionalista e all'idealismo umanitario del secolo XXIX (fatto artificiosamente sopravvivere al suo ambiente storico, rispetto al quale soltanto esso è giustificato. Utopie sono per il Croce la Giustizia internazionale e l'Umanità assolutamente pacifica e concorde: perché il contrasto e la lotta sono ineliminabili dal mondo. E costituiscono, senza dubbio, il male, il lato atroce della vita; ma, come diceva Hegel, bisogna guardare ad esso coraggiosamente e accettandolo, superarlo. Anche la così detta pace non è che una guerra più lenta, e più rimessa: guerra di principii e di interessi, se non d'armi; e ci sono sempre i danni e i dolori. Né alcunché di politicamente significativo e importante può essere mai compiuto senza questi danni e questi dolori.





     Realismo politico, dunque, a cui anche praticamente l'ideologia di tipo wilsoniano ha dovuto cedere il posto. Questo realismo si ripete nella concezione della vita interna dello Stato. Come lo Stato deve essere forza ed energia vivente per affermarsi nella storia del mondo (forza ed energia, si badi, assai più spirituali che astrattamente materiali: questo secondo aspetto si giustifica e riceve valore solo nel primo); così esso è, dentro a sé stesso, un più ristretto cosmo di energie e di forze. Questo Stato è essenzialmente Stato nazionale: unità organica di una varietà infinita di coscienze, costrette in una sola individualità storicamente ed empiricamente determinata dalla missione che lo Stato medesimo deve attirare e difendere dagli altri Stati che tenderebbero ciascuno ad opprimere le idealità altrui per la propria. E alla stessa maniera che c'è una unità della storia umana pur fra tutte queste missioni contrastanti (anzi, essa risulta appunto dal loro contrasto: rerum concordia discors); così l'unità e l'individualità dello Stato non sono minacciate dall'inevitabile conflitto delle idee e dei partiti che si agitato nel suo seno, purché, s'intende, questo conflitto sia vissuto onestamente e seriamente, superando il settarismo e la violenza. Ché anzi il cittadino non è cittadino se non in quanto ha un suo partito e lo sostiene e combatte per lui con le armi che la vita civile concede e la moralità concreta approva: vivere nella vita della Nazione, e viverci combattendo, tanto per il suo ideale contro gli altri quanto per la Nazione stessa, contro le altre Nazioni, - ecco il suo dovere. Né sussiste; per il Croce, il preteso conflitto tra il dovere nazionale e il dovere umanitario: sia perché questo è un falso dovere, da pacifisti e ideologi, sia perché, anche alla stregua del principio della superiorità del dovere più largo, esso è dovere più stretto, dovere inferiore, in quanto discorde dalla necessità della vita e della storia, mentre l'altro è questa stessa necessità. Certo che, come è possibile, anzi doverosa l'eliminazione della violenza inutile e malvagia dalla politica nazionale, così la politica internazionale può avviarsi a una limitazione dei conflitti a quei casi dove la guerra è veramente necessaria. Ma non per questo si speri che le porte del tempio di Giano si chiudano mai a lungo nel mondo.





     Tanto basta a noi per risolvere la questione sollevata da principio, sulla individuazione storica della filosofia politica crociana. È chiaro intanto che essa parte non tanto dal liberalismo della scuola piemontese, quanto dall'altra corrente liberale rappresentata dalla nostra scuola hegeliana del mezzogiorno (i due Spaventa, Fiorentino, De Meis, Francesco de Sanctis). Perché come l'una è liberale con tendenza religiosa spiritualistica, l'altra con tendenza più spiccata mente laica, immanentistica, universalistica, così quella persegue a parer mio una politica concreta ma non realistica, questa la propugna invece concreta e realistica ad un tempo. Ora questo è appunto il punto di vista del Croce: e anzi si eleva in lui a una maggior chiarezza e precisione, anzi a una definitiva storicità. È questa dunque la "vecchia tradizione liberale" che il Croce aveva presente nel definire il proprio programma di fronte al Parlamento: e senza dubbio le origini ideali della sua politica scolastica sono piuttosto in Bertrando Spaventa e Francesco de Sanctis che nel Bertini e in Domenico Berti. Sol che c'è nel Croce qualche cosa di più che il semplice liberalismo hegeliano: in quanto si tratta di un liberalismo che ha assunto anche in sé il nocciolo migliore e più profondo della dottrina marxistica. E d'altra parte, il pensiero liberale crociano rimane sostanzialmente in un ambito tutto speculativo: storicizza, ma non si storicizza, se non come concetto filosofico. Tanto che la sua funzione originale, accanto a quella secondaria di aver prestato sé stesso, nutrendola di sé, all'opera odierna, idealistica, di riforma della scuola, è sopratutto quella di aver purificato dall'astrattismo il campo della politica italiana.