Note di cultura storica


GAETANO DE SANCTIS

    Chi volesse provarsi a definire il significato dell'opera di G. De Sanctis, mettendone in luce l'ambiente spirituale, mostrando le direttive che egli persegue, delimitando le rispettive influenze che ognuna delle scuole contemporanee ebbe ad esercitare sulla sua mente aperta e sempre tesa a raccogliere le nuove voci di verità - cercando insomma di scoprire quella filosofia, o quella fede, che deve pur essere intrinseca ai suoi studi, e dirigere e spiegare ogni suo atteggiamento - si troverebbe, a dire il vero, imbarazzato. Il professor De Sanctis non fu positivista, sebbene del positivismo rimangano in lui traccie indubbie, e più generalmente, nella posizione che egli assume di fronte, per esempio, ai fatti artistici e religiosi, e più particolarmente, nella concezione medesima ch'egli professò della storia, come scienza che procede dagli effetti alle cause, al modo stesso delle scienze fisiche, ma con minore sicurezza, per l'incapacità sua a riprodurre sperimentalmente i fenomeni (cfr. Per la scienza dell'antichità, Torino 1909, p. 277).

    E come non fu positivista, così neppure può dirsi seguace del marxismo o dello storicismo idealistico: per quanto non sia difficile scoprire, e Nella storia dei Romani e nella Storia della repubblica ateniese, le influenze non piccole che esercitò sul suo spirito, pur attraverso la polemica, il materialismo storico; e sebbene d'essersi nutrito di filosofia hegeliana confessi egli stesso, ed evidente sia in lui lo studio sempre maggiore e sempre più proficuo dei sistemi idealistici moderni, e in specie della storiografia crociana. Tuttavia né l'una né l'altra di queste due correnti intellettuali, che così fortemente hanno impregnato di sé, promovendoli in vario modo, gli studi storici moderni, rappresenta il centro ideale del suo lavoro: così il marxismo come l'idealismo non diventano in lui fede, che accentri in un unico problema tutte le sue ricerche, ma rimangono, per così dire, elementi di una cultura complessa accettati in quanto esprimono una coscienza diffusa e una direzione importante del movimento scientifico: non gerarchicamente ordinati, ma giustapposti; non conquiste nuove di verità, ma sussidi metodologici di maggiore o minore utilità offerti al bisogno degli studiosi; cognizioni, non passione; tutti svuotati, come se un'ombra di scetticismo li avvolgesse, alterandone il contenuto interiore, senza scomporre la superficie immobile.

    Venuto agli studi storici non dalla politica, ma dalle ricerche filologiche, G. De Sanctis accarezzò sempre un ideale d'illuminata filologia, che, senza abbandonarsi a quell'eccesso di critica che tocca la sofisticheria, tuttavia non perda mai di vista le tradizioni e i documenti, né d'altronde dimentichi mai la realtà della vita, o meglio, più che della vita, delle varie vicende dei dibattiti teorici e filosofici e politici : una storia insomma, per adoperare quasi le sue stesse parole, che non sia opera nè di puri grammatici, nè di ciarlatani o dilettanti (cfr. ibid. passim, e pagine 330-331, V IX).





    Ideale che abbiamo chiamato di filologia, più che di storia, perciò che s'accentra in un problema di metodo, inteso non crocianamente come filosofia, bensì come sistema delle cognizioni che si richiedono praticamente per lo storico, dove la filosofia occupa un posto anch'essa, non centrale tuttavia, ma particolare, accanto all'epigrafia ed alla psicologia, all'archeologia ed alla scienza economica. Da questo punto di vista, che potrei definire astrattamente formale o formalistico, positivismo marxismo idealismo non valgono per il contenuto vivo e operante, non si impongono allo spirito dello studioso, nè riescono a padroneggiarlo, raccogliendone tutti i problemi intorno a un nucleo centrale, che determini alla ricerca storica il suo indirizzo, ma piuttosto rimangono estranei alla mente dello scienziato. Del quale tuttavia sarebbe inesatto dire che si esamini solo superficialmente e imperfettamente, poiché è vero anzi il contrario.

    Il De Sanctis studia amorosamente le moderne correnti intellettuali, bensì con un interesse che non tocca, per così dire, la materia dei problemi filosofici e politici, e si rivolge ad essi, e li ama, e li studia solo in quanto sono scienza, esperienze nuove, opera di studiosi seri e aristocratici: si potrebbe dire, se in queste parole non fosse contenuta una sfumatura d'ironia, e forse di spregio, ch'esula in verità dal nostro pensiero, che i sistemi e le teorie lo interessano, più che per il loro valore di vita, per il loro valore d'accademia. Con ciò si potrebbe credere (ed è pure in qualche modo vero) che in fondo l'atteggiamento del De Sanctis sia tutto impregnato di scetticismo, se pur non ci fosse, implicito in esso, un amore e una fede: l'amore vivo e costante per la scienza come scienza, che è fede tenace nel suo sviluppo progressivo.

    Problema di metodo, amore della scienza: in queste formule pare a noi si possa raccogliere in un certo senso tutta la lunga operosità del nostro storico, e - pronunciandole - rievochiamo a noi la figura simpatica dello studioso, con quel che è in essa di accademico, e non dispiace, come un simbolo di aristocrazia mentale che va scomparendo; e ripensiamo il suo dolore franco e l'ingenuo stupore che lascia trasparire ogniqualvolta nel mondo della scienza gli tocca d'imbattersi nella leggerezza d'un dilettante o nel cieco furore d'un avversario, che la polemica - distraendo l'interesse della disciplina in misere beghe personali - porta a disconoscere l'esatta realtà; e l'ideale ch'egli accarezza in cuore d'una repubblica delle lettere dove tutti gli scienziati sian provvisti di quella dignità e cortesia che nasce dalla lunga consuetudine degli studi; e ci ritornano alla mente le pagine sue di polemica che sembrano attuare quell'ideale, franche e piene di vivacità battagliera come esse sono, ma nello stesso tempo garbate, e elevate di tono, e impregnate di quel rispetto alla scienza, che ci fa dimenticare ogni motivo puramente egoistico. E amore della scienza sarebbe tutto, se molto più altro non ci fosse, ch'è impossibile formulare, e si può soltanto accennare: la ricchezza della sua coltura, la limpidezza e la dignità dell'espressione, l'acutezza dell'indagine sgombra da pregiudizi, e aliena da ogni mera ingegnosità, così come dalle sintesi affrettate e superficiali ; e sopratutto l'attitudine spontanea alla riflessione psicologica arguta e commossa e la tendenza all'analisi minuta degli eventi e delle loro cause più che non alla costruzione organica del periodo storico, caratteristiche che ci fanno ripensare talora alle opere storiche del Manzoni. Chi vuol riconoscere tutte queste ed altre qualità che non si possono dire, e che fan di lui una delle figure più notevoli dei movimento di studi contemporaneo, deve andare a leggere, o rileggere, le pagine che il De Sanctis ha dedicate alla costituzione ed alla riforma dei comizi in Roma, alla democrazia e all'imperialismo ateniese, - specialmente notevoli - quelle relative all'ordinamento dello stato cartaginese; e le parole incisive e precise con cui scolpisce le figure dei principali uomini dell'antichità: Solone e Clistene, Temistocle e Pericle, Agatocle e Ierone, Appio Claudio Ceco e Caio Flaminio, Q. Fabio Massimo, Scipione e Annibale.





    Dei difetti poi e dei limiti, che più sopra abbiamo scoperto nello spirito del nostro autore, appaiono chiare le conseguenze nei suoi libri di storia, a chi ne osservi l'intima frammentarietà di concezione. I diversi problemi politici, economici, religiosi, filosofici, artistici, sociali, stanno ciascuno per sé, senza che nessuno mai soverchi sugli altri e tenda a risolverli in sé stesso, costituendosi come centro ideale dello svolgimento. Ad ognuno di essi il De Sanctis s'appressa mostrandovi sempre le sue doti di acuto indagatore e filologo, di penetrante osservatore di anime, di uomo coscienzioso e geniale; in ciascuno porta il suo animo commosso e riverente, sia pel piacere che deriva dall'indagine stessa in atto, sia per la grandiosità e la potenza dei fatti su cui l'indagine si esercita. Par tuttavia a chi legge che qualcosa dell'anima di lui resti fuori del suo scritto, e non qualcosa di secondario, ma proprio ciò che v'è di più importante, la sua filosofia, la sua fede: onde ne rimane nell'animo del lettore, insieme colla gioia della lettura interessante e piacevole, un senso doloroso d'insoddisfazione.

    G. De Sanctis è cattolico, e più volte nei suoi libri e nelle sue polemiche gli piace di ricordarlo: il che gli ha sollevato contro critiche malevoli e sciocche, non degne di ricordo. Tuttavia questo suo cattolicismo non apparirebbe mai dalle sue opere storiche, s'egli stesso non venisse talora a ricordarcelo. Quella fede che potrebbe offrirgli un principio unificatore dell'universo spirituale, un criterio di giudizio così potente, pur nella sua rigidezza morale e nel suo intellettualismo, rimane estrinseca e sovrapposta. Così che da un lato, il giudizio si stacca dall'analisi del fatto che sta a sé (come qualcosa di compiuto in sé), onde nel lettore profano e ignaro di sottili questioni filologiche nasce il desiderio di voltare in fretta le pagine di minuta ricerca cronologica e correr subito alle osservazioni finali; d'altra parte lo stesso giudizio storico, pur così largo e comprensivo, lascia un'impressione di vuoto, che ci fa quasi desiderare la rigida e coerente concezione cattolica del Manzoni, quale traspare dalle sue opere storiche. Nel grande prosatore lombardo una ferma fede costringe tutti i problemi intorno a un nucleo centrale, li lega per così dire in un formidabile organismo logico, dove la coerenza interiore limita la larghezza e l'oggettività del giudizio, così da spingerlo a negare persino il valore della rivoluzione francese: lo storicismo che pervade tutta la vita intellettuale moderna ha insegnato al De Sanctis che ogni istante del progresso storico ha il suo significato e il suo merito, che nulla si può negare di ciò che è accaduto, ed ogni cosa è obbligo di comprendere; ma gliel'ha insegnato per così dire in un modo estrinseco che non coglie la sostanza, ma solo la superficie dei fatti, e al suo storicismo che gli viene dalla nuova educazione, e che rimane in lui ma svuotato della fede nel suo valore assoluto ed eterno, quasi ci vien fatto di preferire l'intransigenza lineare del Manzoni.

    Vorremmo insomma che, più intimamente compenetrata con la narrazione delle alterne vicende, partecipasse al dramma storico quella Provvidenza, che l'autore invoca terminando il secondo volume della sua Storia dei Romani: poiché, come osserva acutamente il Croce recensendo l'opera del De Sanctis nella Critica (VI, 390), "questa forza spirituale, intesa in modo affatto immanente, e il progresso che ne è la manifestazione, bisogna farli apparire nel racconto stesso, e non già introdurli alla fine mediante una formula che rimane astratta".





    Pur tuttavia di questi limiti della sua attività ha coscienza in qualche modo il De Sanctis stesso, nel quale, accanto all'amore della scienza che lo apparta in una solitudine austera ma povera di contenuto umano, noi sentiamo sempre più farsi luce un desiderio trepido d'affacciarsi alla vita, di superare i primi confini troppo angusti della cultura universitaria; desiderio che ha in sé la timidità e l'apprensione di chi s'incammina verso l'ignoto e, mentre ne assapora la bellezza, ne teme i pericoli. Ma dell'aver egli saputo superare il timore immediato di questi pericoli, e dell'aver sentito la necessità di render la sua scienza più vicina agli interessi e ai dolori nostri, senza affogarla nel dilettantismo, noi dobbiamo essergli grati. Una breve esperienza politica (la quale, più che politica in senso stretto, è stata opera di coltura sapiente e oculata, che risente anch'essa nei suoi momenti migliori l'influsso dell'idealismo moderno), la fatica immensa della guerra, la scontentezza presente han recato negli ultimi scritti del De Sanctis un accento di pensosa malinconia, che si fa sentire già nel terzo volume della Storia dei Romani (che è il libro migliore del nostro), e più in un bell'articolo sul Dopoguerra antico (pubbl. nella Rivista Atene e Roma, N. S., 3-14, 13-89), dove nelle vicende e nei problemi della storia romana dopo le guerre puniche ci si fa sentire, con mirabile garbo e sicurezza di misura, l'eco di situazioni più vicine al nostro spirito e che ancora dolorosamente ci travagliano. Rimangono bensì, anche in questo sforzo di approfondimento umano, i difetti che più sopra abbiamo esposti, ma attenuati in qualche modo, e chiari solo a chi, per la lunga esperienza fatta con questo autore, li risenta nell'artificiosa distinzione dei problemi, ciascuno dei quali ha un suo posto a sé, e non riesce a coordinarsi con gli altri in una visione unitaria. Le doti di serietà e d'acutezza, derivanti da un profondo amore della verità e da una meditazione sottile se pur troppo analitica, insieme con il senso d'un allontanamento doloroso della persona dello storico, e con la coscienza di questa mancanza ma ancor timida e poco chiara, rimangono infine le caratteristiche fondamentali della simpatica figura di Gaetano De Sanctis. Nella quale, per concludere con un'osservazione più generale il nostro discorso, si potrebbe per avventura riconoscere un atteggiamento assai diffuso dei cattolici nostri verso la coltura moderna: accettarne i dati e le conquiste, non nel loro valore intimo e profondo, ma per così dire nella struttura logica che è alla superficie, riuscendo solo in tal modo a conciliarli più o meno bene con la propria fede, che rimane nascosta nell'ombra, o se pur s'intrude improvvisamente nel mondo nuovo, senza una precedente giustificazione, vi si disperde come la risonanza fioca di un lontano passato.

NATALINO SAPEGNO.