ESPERIENZA LIBERALE

Benedetto XV.

     Su Benedetto XV ha pubblicato un libro meno che mediocre Luigi Degli Occhi (Milano, Caddeo: Il Pensiero Politico Moderno, N. 4, 1 vol. di pag. 117, L. 6). È fatto essenzialmente di citazioni dalle encicliche del pontefice (due sole tradotte integralmente) e di vari articoli della Revue de Paris e della Vita Internazionale ricuciti in un ordine aridamente schematico. Nei vari capitoli (atteggiamento durante la guerra, l'opera di assistenza e carità, la questione italiana, ecc.) si elencano pochi concetti monchi: L'autore, che è quasi un tecnico di politica vaticana, non riesce neanche a rilevare la posizione anacronistica delle argomentazioni scolastiche di fronte alla vita moderna e la solitudine del pontefice in tutte le questioni più vive. Gli manca l'attitudine a vedere le cose secondo un rilievo drammatico; non rivela la parte più personale che ebbe il pontefice nell'opera di conciliazione, non ne vede i limiti, non ha libertà di critica. Più interessanti le rivelazioni che G. Speranzini ha fatto in un giornale torinese. Le offriamo ai nostri lettori.

     "La linea di condotta di Benedetto XV fu quella di sopire e di eliminare tutti i dissidi che potessero sorgere tra i cattolici. Controversie religiose durante il suo pontificato se ne ebbero ben poche: quelle politiche egli non le volle inasprire. Lasciò che in questo campo le idee e le naturali tendenze facessero la loro strada. Non credette necessario e tanto meno bene indirizzato il P. P.; tuttavia le lasciò sorgere e lo lasciò agire liberamente; fu contrario a che don Sturzo ed il clero prendessero posizione di dirigenti nel partito, ma non per questo egli volle agire d'autorità Benedetto XV, intento alla sua sovrana missione di pacificatore, non volle occasionare ed alimentare contrasti. Si affidò alla rettitudine e alla coscienza di quelli stessi che si assumevano il compito di certe iniziative. Questa larghezza di vedute, questa transigenza con idee ed aspirazioni che non furono sue, noti ha dato davvero frutti amari; ma siccome altro è tolleranza accondiscendente ed altro è programma mandato in esecuzione, così la morte di Benedetto XV lascia affatto insoluta la questione della libertà politica sociale dei cattolici".





     Ci spiace di non poter ripubblicare per intero un poderoso articolo che su Il Papa e la guerra ha scritto Mario Missiroli nel Secolo. E' la sola cosa storica, definitiva che sia apparsa sull'argomento. Le ragioni del senso di mediocrità, che ognuno avverte nell'opera di Benedetto XV, sono svelate con potenza di sintesi eccezionale. Il Papa non ha saputo sollevarsi "al di sopra dei re e dei popoli, delle democrazie e delle aristocrazie, degli interessi dell'egoismo e dei miti dell'ipocrisia".

     "La neutralità della Santa Sede non derivò da un senso doloroso e tragico della vita, da una condanna risoluta e totale della guerra, che, in questo caso, sarebbe partita dal Vaticano una parola solenne e temeraria, ma dalla preoccupazione propria di chi attende lo svolgersi degli eventi con animo trepidante e coltiva in segreto una speranza e medita una rivincita. Tutto il mondo, infallibile nell'istinto popolare, senti contro tutte le proteste e le giustificazioni, che il Papa non era disinteressato e ciò bastò perchè egli fosse fatalmente escluso".

     "Solo un genio od un santo avrebbe saputo o potuto rivolgere all'umanità la parola magica dei contorto contro la disperazione. Disgraziatamente Benedetto XV non era nè un genio nè un santo".

     "Nella guerra vide un'occasione fortunata per acquisire al Papato un primato perduto, per riconquistare un posto incompatibile con la coscienza moderna, per assurgere a un prestigio tramontato per sempre. Si mosse, pertanto, sul terreno diplomatico, atteggiandosi a sovrano, mentre era spodestato, e in un momento in cui alla diplomazia succedeva la forza nelle sue espressioni più catastrofiche".

     "Ebbe il dolore di vedere i cattolici di opposti regni uccidersi fra di loro nonostante la fede comune e non potè non raccomandare a tutti i fedeli di osservate lealmente i doveri verso i loro Stati. Per la prima volta nella storia un Papa fu costretto, dalla forza delle cose, dall'ineluttabile fatalità delle passioni, dalla logica ferrea dell'eresia, a riconoscere contro tutta la dottrina cattolica, la esistenza di un dovere superiore a quello del credente, l'esistenza del "dovere" nella sua implacabile necessità. Egli parlò, senza accorgersene, l'aborrito linguaggio dei razionalismo kantiano. Quale. tragedia per l'anima di un papa! Ma quale grandezza morale se se ne fosse accorto! Egli, invece, non sospettò nemmeno la grandiosità del dramma che investiva la stessa idea cristiana, e passò oltre. E la storia gli passa accanto senza segnarne il nome".





Il collaborazionismo di Missiroli.

     Mario Missiroli ha ragione di scriverci che il suo "filosocialismo muove da presupposti assai diversi da quelli correnti".

     Noi crediamo tuttavia che, sostanzialmente, dalla Monarchia Socialista si debba giungere, per virtù logica, ad altre conseguenze.

     Non si può negare che il socialismo abbia contribuito a dare alle masse una coscienza, se non altro alimentando una lotta necessaria; ma quel "senso dell'individualità, dell'orgoglio" che nasce direttamente da una spontanea formazione spirituale marxista è incompatibile con le premesse del riformismo turatiano. Questo non può avere con sè le masse che guardano curiose l'esperimento, ma tengono separate le responsabilità: Turati e i suoi amici non dicono nulla più di Giolitti o di Nitti, la loro è la filosofia semi-umanitaria, semi .filistea dei piccoli borghesi. Il vizio originario è in una visione democratica di carattere empiricamente cattolico: il governo ha per essi una funzione di trascendente utilitarismo, le masse ne approfittano per accogliere i vantaggi che vengono loro offerti. II circolo vizioso della legislazione sociale (che sarebbe il centro della polica socialista, com'è stato sinora è inesorabilmente diseducatore. Turati, praticamente, non conduce, al "luteranismo sociale" e a un senso di responsabilità, ma a una nuova rivelazione edonista e quietista della verità.

     Chi crede che "l'eterna crisi italiana sia religiosa" non può non accettare che la sola liberazione debba scaturire dall'autonomia popolare e dall'iniziativa diretta. Lo Stato del popolo sarà quello per cui, il popolo saprà volontariamente soffrire e darsi un'auto-disciplina.